Alluminio

Nei vaccini, tra le altre sostanze si trovano sali di ALLUMINIO.

L’alluminio supera la barriera “ematoencefàlica” e nel cervello impedisce la “sinapsi – neuronale”, cioè impedisce che i neuroni si leghino tra loro. Chiaramente non si è a conoscenza di quanti neuroni non si leghino, e quale bambino succeda questo. Questa reazione è solamente individuale, cioè ogni bambino risponde a questo metallo pesante in forma esclusivamente personale e non si possono quantificare gli effetti collaterali, se non esaminando tutti i bambini, cosa che non viene fatta. Comunque si può costatare che moltissimi bambini hanno a scuola problemi di apprendimento, cosa altro ci si può aspettare se i neuroni non hanno legato fra di loro? Sono distratti, irrequieti ecc. ecc. L’alluminio è scientificamente accertato atrofizza i neuroni…………..

Formaldeide

Sostanza ritenuta mutagena e cancerosa.
Tutti gli studi scientifici internazionali, riguardanti questa sostanza chimica, sono stati effettuati solo come contatto cutaneo e inalazione.
Non ci sono studi scientifici di che cosa provochi questa sostanza iniettata a un bimbo di ottanta giorni…

Alluminio

Considerato innocuo fino a tempi relativamente recenti, questo metallo può produrre gravi effetti neurotossici, e potrebbe anche essere implicato nell’insorgenza della malattia di Alzheimer.

L’alluminio entra nella storia dell’uomo fin dall’antichità; Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia (77 d.C.), riportava l’uso dell’allume (solfato di alluminio e potassio) come astringente e come curativo per le affezioni della pelle nella farmacopea di egizi, lidi e fenici. Inoltre l’alume veniva impiegato come mordente nella tintura dei tessuti. La chimica dell’alluminio tuttavia inizia in tempi ben più recenti: nel 1754 il chimico tedesco Andreas S.Marggraf ottenne l’allumina; nel 1825 il danese Hans C.Oested isolò il metallo, che venne poi caratterizzato nel 1827 da Friedrich Wohler; nel 1855 la prima barra di alluminio venne presentata all’Esposizione internazionale di Parigi. Nel 1852 l’alluminio aveva un valore commerciale superiore a quello dell’oro, tanto che l’imperatore Napoleone III si fece fare un servizio da tavola nel “prezioso metallo”, da usare in occasioni speciali quali le visite di capi di Stato europei. Alla fine dell’Ottocento venne messo a punto il metodo elettrolitico tuttora usato per la preparazione dell’alluminio puro, da parte dello statunitense Charles M.Hall e, simultaneamente, del francese Paul Héroult; nel 1960 la produzione mondiale dell’alluminio ha superato quella del rame e nel 1988 ha raggiunto i 18 milioni di tonnellate annue. L’alluminio è abbondantemente presente nell’universo, e costituisce circa l’8 per cento della litosfera terrestre; inoltre rappresenta il componente preponderante di molti minerali. La concentrazione del metallo negli organismi viventi è invece estremamente ridotta, come pure ridotta è la sua concentrazione nelle acque superficiali e nelle falde acquifere. La solubilità dell’alluminio, tuttavia, non può aumentare considerevolmente con l’incremento dell’acidità ambientale dovuta, per esempio, alle piogge acide e all’uso continuato di fertilizzanti. Si ritiene che l’acidità raramente rappresenti la causa principale del declino delle foreste o della moria di pesci e organismi acquatici; secondo Charles T. Driscoll, dell’Institute for Ecosystem Studies di Millbrook nello Stato di New York, è invece l’alluminio che percolando dal suolo e dalle rocce nei corsi d’acqua, causa questi problemi ecologici. L’ubiquità dell’alluminio fa sì che esso sia presente nella dieta in quantità relativamente elevate, valutate da Jean A. T. Pennington e collaboratori della Food and Drug Administration intorno ai 5-20 milligrammi al giorno. Una quantità di gran lunga maggiore viene ingerita quando si fa uso di antiacidi, dove l’idrossido di alluminio è uno degli ingredienti principali. Tali quantità tuttavia, se assunte da un soggetto sano e soprattutto con reni ben funzionanti, vengono facilmente rimosse dall’organismo grazie a una serie di meccanismi fisiologici noti o presunti. La parete gastrointestinale è quasi impermeabile alle forme chimiche più comuni dell’alluminio, e soltanto una frazione dello 0,01-0,3 per cento del metallo ingerito riesce ad attraversare tale barriera. La quantità media di alluminio in circolo non supera quindi i 10 microgrammi per litro di sangue. Il basso tenore di alluminio nei vari organi e tessuti deriva dall’attenta azione di controllo da parte dell’organismo, che possiede barriere fisiologiche “impermeabili” (gastrointestinale, ematoencefalica, eccetera). Inoltre opportuni veicolanti biologici presenti nel sangue, come per esempio il citrato, provvedono a un’accurata eliminazione per mezzo delle vie urinarie del metallo non legato alle pareti gastrointestinali. La quantità di alluminio eliminata attraverso l’escrezione renale si aggira tra i 20 e i 50 microgrammi al giorno; la quantità non escreta si accumula invece prevalentemente nelle ossa, nei polmoni e nella milza. Ila passaggio dell’alluminio attraverso le varie barriere naturali del nostro organismo può essere facilitato da leganti del metallo sia fisiologici, come la transferrina (una proteina del sangue in grado di legare ferro, ma anche alluminio), sia introdotti con la dieta (quali il citrato e il glutammato). Questi trasportatori possono far transitare il metallo attraverso le membrane biologiche e/o lo spazio intracellulare. La forma chimica nella quale l’alluminio viene assunto è altrettanto importante della quantità stessa del metallo; pertanto le proprietà delle molecole con le quali l’alluminio può interagire, formando complessi più o meno stabili all’idrolisi in acqua, possono diventare cruciali nel determinare la tossicità del metallo. Studi condotti da Bruce R.Martin del Dipartimento di chimica dell’Università della Virginia hanno dimostrato che l’alluminio, grazie alle sue interazioni stabili con transferrina, citrato, fosfato e idrossidi, non può esistere in forma libera nel plasma sanguigno, ed è grazie alla mobilità dei recettori cellulari della transferrina che il metallo può essere trasportato all’interno della cellula. Un composto in grado di produrre un netto assorbimento gastrico dell’alluminio è il citrato (presente per esempio nel succo d’arancia) il quale, formando complessi solubili col metallo, previene la formazione di un precipitato insolubile. Anche la vitamina D sembra favorire l’assorbimento dell’alluminio oltre a quello di ioni metallici quali calcio, magnesio, zinco, bario e altri ancora. A sua volta l’alluminio può interferire pesantemente sull’assorbimento di alcuni ioni, compresi ferro, fluoro, fosforo e, in qualche misura, calcio, formando composti insolubili nel tratto gastroenterico. Inoltre è in grado di influenzare l’assorbimento del colesterolo, indispensabile per la costruzione delle pareti cellulari, e di ridurre l’attività delle contrazioni intestinali dipendenti dell’acetilcolina. I primi dati sulla neuro tossicità dell’alluminio furono ottenuti nel 1897 dallo studioso tedesco Paul Doellken che somministrò per via sottocutanea, in animali di laboratorio, soluzioni acquose di citrato e tartrato di alluminio. Simili trattamenti portarono a degenerazioni del sistema nervoso centrale, soprattutto a carico dei nervi cranici. Quarant’anni dopo Henry W. Scherp e Charles F. Church, della School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, inocularono soluzioni di lattato di alluminio nel terzo ventricolo cerebrale di conigli, osservando l’insorgenza di una sintomatologia neurologica. Dopo appena dieci giorni dal trattamento si manifestava una diminuzione del tono muscolare accompagnata da atassia, prostrazione e convulsione, e la morte avveniva dopo circa otto giorni dall’insorgenza dei primi sintomi. L’analisi istologica rivelava una generale alterazione a carico delle cellule nervose con una degenerazione di tipo infiammatorio. La quantità di lattato di alluminio somministrato era stata di circa 10 microgrammi; ciò sta a dimostrare che se l’alluminio viene somministrato evitando la barriera emato encefalica, che protegge e isola il cervello dal sistema circolatorio, anche in quantità minime può produrre effetti neuro tossici di considerevole gravità. Nel nostro laboratorio abbiamo trattato alcuni ratti con una soluzione di aceti lacetonato di alluminio, un complesso del metallo chimicamente stabile e lipofilo; la sostanza tossica è stata somministrata mediante una pompetta osmotica inserita sotto la cute e collegata al terzo ventricolo, che consentiva un rilascio piuttosto lento del complesso metallico, dell’entità di alcuni microgrammiin circa 15 giorni. Dopo 48 ore dal trattamento gli animali mostrarono un accumulo specifico di alluminio all’interno dei neuroni ippocampali, in un’area cerebrale che presiede ai processi dell’apprendimento e della memoria, ma non all’interno di altre cellule del cervello come per esempio le cellule gliali. Se lo stesso acetilacetonato di alluminio veniva somministrato per aerosol, dopo qualche tempo si poteva osservare l’accumulo del metallo all’interno delle cellule di Purkinje del cervelletto, situate ben lontane dai siti di somministrazione della sostanza. Il sistema olfattivo infatti può essere considerato una via che collega l’ambiente esterno con il cervello attraverso i neuroni olfattivi (si veda l’articolo Vita e morte dei neuroni olfattivi di Stefano Biffo e Aldo Fasolo in “Le Scienze” n.308, aprile 1994). Questi esperimenti mostrano chiaramente che l’alluminio presente nell’ambiente, se opportunamente veicolato, può raggiungere il sistema nervoso centrale e quindi accumularsi in maniera selettiva all’interno dei neuroni. Oltre alle conoscenze tossico logiche desunte dalla sperimentazione su animali o su colture cellulari, altri dati provengono dall’esperienza clinica. Tali esperienze hanno assunto un’importanza del tutto particolare quando è stata dimostrata un’azione eziologica del metallo in alcune patologie umane. L’uremia è una patologia associata a un elevato contenuto nel sangue di urea, un prodotto derivante dal metabolismo degli amminoacidi ed eliminabile attraverso i reni. Per uremico si intende un soggetto che presenta segni e sintomi di una compromissione della funzione renale. Fra i sintomi si possono elencare nausea, vomito, anoressia, sapore metallico in bocca, prurito, disordini neuro muscolari, ipertensione, gonfiore, confusione mentale e alterazione del bilancio elettrolitico e dell’equilibrato acido- base del sangue. Il soggetto uremico, se necessario, è sottoposto al trattamento dialitico per eliminare le scorie metaboliche dal sangue sopperendo così alla mancata funzione renale. Nel 1972 Allen C. Alfrey e colleghi, del Veterans Administration Hospital di Denver nel Colorado, descrissero una sindrome neurologica, in soggetti uremici sottoposti a dialisi, definita demenza dialitica. Essa si manifesta con disturbi del linguaggio associati a cambiamento della personalità, disorientamento e allucinazioni. Col passare del tempo i soggetti diventano muti e incapaci di movimenti volontari; la morte segue rapidamente. Dopo l’osservazione di Alfrey tale sindrome, con carattere epidemico, venne segnalata in centri di dialisi di tutto il mondo; tuttavia la sua gravità variava a seconda delle zone geografiche. Si arrivò ben presto a ipotizzare che la causa di questa patologia fosse una tossina ambientale. Nel 1976 lo stesso Alfrey e collaboratori riportarono sul “New England Journal of Medicine” un livello cerebrale di alluminio più elevato nei soggetti encefalopatici sottoposti a trattamento dialitico rispetto ad altri pazienti uremici non soggetti a dialisi. Questa osservazione venne ben presto confermata da studi epidemiologici effettuati in Inghilterra, Stati Uniti e Francia, che dimostrarono inequivocabilmente una maggior incidenza della demenza dialitica in quei centri dove la concentrazione di alluminio nell’acqua usata per la preparazione dei liquidi di dialisi era più elevata. La demenza da dialisi venne rapidamente ridotta con la rimozione dell’alluminio dai fluidi di dialisi e ,più tardi, con l’uso terapeutico della deferossamina- metansulfonato, un celante dell’alluminio in grado di rimuovere il metallo accumulato nell’organismo. Nel 1976 David N. S. Kerr e collaboratori della Medical School dell’Università di Newcastle, in Inghilterra, descrissero l’azione tossica dell’alluminio a carico del sistema scheletrico, caratterizzato dall’insorgenza di una patologia nota come osteomalacia – vitamina D resistente. Tale patologia si sviluppa nel 70 per cento dei casi dopo 50-60 mesi di dialisi e si manifesta con fragilità ossea e con dolori osteo-muscolari. Anche in questo caso studi epidemiologici accertarono la correlazione tra alluminio nei fluidi di dialisi e insorgenza dell’osteomalacia, prevenibile almeno in parte con la rimozione del metallo. L’osteomalacia può inoltre essere prodotta anche in animali di laboratorio trattati con composti di alluminio, il che lascia ben pochi dubbi sull’eziologia. Infine la tossicità dell’alluminio può esercitarsi anche sul sistema emopoietico dei soggetti uremici, dove si manifesta con l’insorgere di un’anemia non ferro – dipendente detta microcitemica, che si accompagna a una marcata riduzione delle dimensioni dei globuli rossi. Conigli trattati con aceti lacetonato di alluminio per via endovenosa sviluppano una forma di acantocinosi ben visibile nell’illustrazione a pag.29. Se da una parte l’azione tossica dell’alluminio è considerata un dato di fatto in soggetti con funzione renale compromessa, dall’altra rimane ancora da chiarire perché questa tossicità si manifesti con un enorme variabilità individuale. Recentemente, in uno studio condotto in collaborazione con il Centro trasfusionale di Treviso, è stato osservato che linfociti di donatori sani trattati in vitro con composti di alluminio esprimono in maniera cospicua il recettore della transferrina in almeno il 40-45 per cento dei casi esaminati (high responders). Dal momento che il recettore della transferrina è deputato a introdurre ferro, ed eventualmente alluminio, nella cellula, i nostri esperimenti sembrano indicare la potenziale capacità da parte di alcuni soggetti ad accumulare quantità più elevate di alluminio rispetto ad altri (normal or low responders). Le cellule del sistema nervoso centrale le hanno un metabolismo più intenso rispetto alle altre cellule dell’organismo, e di conseguenza possono essere considerate più vulnerabili all’azione tossica dell’alluminio. Inoltre il sistema vascolare cerebrale dell’uomo e dei mammiferi è particolarmente sviluppato e utilizza il 13-15 per cento della gettata cardiaca (1152 litri di sangue al giorno) pur essendo la sua massa non superiore al 2-3 per cento di quella corporea; pertanto, grazie alle sue proprietà metaboliche, la probabilità che vi si accumuli una tossina può aumentare. Nel 1962 A. I. G. MacLaughin e collaboratori, del Department for Research in Industrial Medicine del London Hospital, riportarono il primo caso di encefalopatia da alluminio in un lavoratore addetto alla produzione di questo metallo. Nel cervello del soggetto venne trovato un accumulo di alluminio 20 volte superiore rispetto ai valori normali. Casi analoghi furono successivamente descritti da altri studiosi, che confermarono una elevata concentrazione di alluminio cerebrale in concomitanza con una seria sintomatologia neurologica. Tra il 1944 e il 1979 circa 29000 minatori delle miniere di oro e uranio dell’Ontario, in Canada, vennero sottoposti a trattamenti con polvere di alluminio (la cosiddetta polvere di McIntyre) per la prevenzione della silicosi polmonare. Uno studio epidemiologico condotto da Sandra L. Rifat e collaboratori del Dipartimento di psichiatria e medicina preventiva dell’Università di Toronto rivelò poi che questi minatori, pur non manifestando particolari segni neurologici, mostravano un’abilità minore nei test di capacità cognitiva rispetto a lavoratori non esposti, rafforzando quindi l’ipotesi del ruolo neurotossico dell’alluminio. La sindrome di Alzheimer, che prende il nome dal neurologo tedesco che la descrisse per la prima volta al convegno di psichiatria tenutosi a Tubingen nel novembre 1906, rappresenta una malattia o una serie di malattie a decorso fatale che si manifesta in età presenile e senile con una degenerazione del sistema nervoso centrale. Essa rappresenta circa il 50-60 per cento di tutti i casi di demenza senile, che nei soli Stati Uniti ammontano a circa tre milioni. La causa o le cause della malattia sono ancora in gran parte da definire, così come gli approcci terapeutici. La sindrome di Alzheimer può essere diagnosticata dopo la morte del soggetto mediante l’esame istopatologico della corteccia cerebrale, in cui sono presenti placche senili in numero abnorme e grovigli di materiale proteico all’interno dei neuroni degenerati. Al microscopio elettronico questi grovigli di proteine neuro fibrillari si presentano come fasci di filamenti appaiati e avvolti a elica. Molte sono le ipotesi eziopatogenetiche sulla sindrome di Alzheimer e per esse rimandiamo all’articolo La proteina amiloide e la malattia di Alzheimer di Dennis J. Selkoe in “Le Scienze” n.281, gennaio 1992. Sebbene la causa principale che porta all’insorgenza della malattia sia ancora da stabilire, un certo numero di osservazioni sembrano indicare come l’allunella possa avere un ruolo importante nella cascata di eventi che portano alla morte neuronale. Secondo Donald R. McLachlan del Center for Research in Neurodegenerative Diseases dell’Università di Toronto, ci sono almeno quattro serie di dati indipendenti tra loro che dimostrano il coinvolgimento dell’alluminio nella sindrome di Alzheimer. In primo luogo, cellule trattate con concentrazioni di alluminio simili a quelle rilevate nel cervello di pazienti affetti dalla sindrome di Alzheimer mostrano profonde modificazioni a carico dei neuro trasmettitori implicati nella comunicazione cellulare. In secondo luogo, studi epidemiologici mostrano che una elevata incidenza della patologia è in rapporto con la concentrazione di alluminio presente nell’acqua potabile. Inoltre l’uso farmacologico di deferossamina in soggetti affetti da sindrome di Alzheimer sembra non solo ridurre la progressione della malattia, ma anche migliorare le capacità cognitive, come dimostrato nel 1991 da McLachlan e collaboratori. Infine, studi neurotossicologici su animali di laboratorio trattati con alluminio mostrano l’insorgenza di una encefalopatia da alluminio accompagnata da una forte compromissione delle capacità di apprendimento e di memoria. Alcuni studi di tossicologia sperimentale portano a stimare che la concentrazione letale di alluminio cerebrale in conigli e gatti, animali sensibili all’intossicazione da questo metallo, possa essere di 5-6 microgrammi per grammo di massa cerebrale, simile a quella osservata nel cervello dei soggetti affetti dalla sindrome di Alzheimer. Nei pazienti colpiti da demenza dialitica, invece, l’alluminio raggiunge concentrazioni più elevate (20 microgrammi per grammo), che non sono tuttavia in grado di produrre sistematicamente l’Alzheimer. Secondo alcuni studiosi, questa osservazione proverebbe l’inconsistenza dell’ipotesi eziopatogenetica dell’alluminio nella sindrome di Alzheimer. Va tuttavia osservato che, mentre nel cervello dei soggetti con Alzheimer il metallo si accumula in maniera selettiva e focale, come è stato dimostrato con sofisticati metodi micro analitici da John Candy e colleghi del Medicinal Research Council di Newcastle, in Inghilterra, e da Daniel Perl e collaboratori del Mount Sinai Hospital di New York: i primi hanno rilevato il metallo nelle placche senili, i secondi nei grovigli filamentosi all’interno dei neuroni degenerati. Un altro dato interessante a sostegno dell’ipotesi eziopatogenetica dell’alluminio è relativo alla quantità di metallo legato alla ferritina, una proteina in grado di legare sia ferro sia alluminio. La ferritina estratta dal cervello di soggetti affetti da Alzheimer contiene concentrazioni di alluminio 5-6 volte superiori a quelle presenti nei soggetti sani. Recentemente siamo riusciti a mettere a punto un metodo istofluorimetrico per rivelare l’eventuale presenza di alluminio all’interno delle placche senili; la tecnica sfrutta il fatto che la morina, una sostanza chimica normalmente non fluorescente, lo diventa una volta complessata con l’alluminio. La sensibilità di questo metodo può arrivare fino a poche parti per miliardo. Mentre l’alluminio nelle placche senili presenti nella corteccia cerebrale di soggetti affetti dalla sindrome di Alzheimer è concentrato prevalentemente nel centro della placca, il cosiddetto core, nei soggetti affetti da demenza da dialisi l’alluminio è distribuito in tutta la placca. In un soggetto anziano di controllo, non affetto da patologie cerebrali, sono pure presenti placche senili, ma in numero inferiore rispetto a quelle rilevabili in un cervello alzheimeriano; in questo caso però l’alluminio non risulta accumulato né in modo diffuso, né in modo focale. Numerosi studi tossicologici hanno dimostrato che cani, ratti e conigli riducevano considerevolmente le loro prestazioni in fatto di apprendimento e memoria se venivano trattati con alluminio. Qualora il trattamento fosse stato prolungato, gli animali sviluppavano una grave encefalopatia che conduceva a una degenerazione neuronale con formazione di grovigli proteici simili a quelli riscontrati nei neuroni dei soggetti alzheimeriani; tuttavia non si è finora riusciti a produrre un modello sperimentale animale della malattia di Alzheimer, il che può significare l’impossibilità di riprodurre negli animali stessi una malattia tipicamente umana, come è stato sottolineato da Stanley Rapoport dei National Institutes of Health di Bethesda (Washington). Nel nostro e in altri laboratori, è stato dimostrato che l’alluminio è in grado di alterare un numero elevato di reazioni neurochimiche, esercitando un’azione a livello delle membrane cellulari, dei processi di trascrizione nucleare, delle funzioni del citoscheletro e del sistema dei secondi messaggeri. Inoltre abbiamo recentemente dimostrato come l’alluminio possa alterare il metabolismo di alcuni neuro trasmettitori compromessi nella sindrome di Alzheimer, come per esempio l’acetilcolina. Fra le diverse azioni tossiche dell’alluminio, abbiamo potuto dimostrare, assieme ai colleghi William A. Banks e Abba J. Kastin della School of Medicine dell’Università di Tulane (Louisiana), la capacità del metallo di compromettere la permeabilità della barriera ematoencefalica. Tale compromissione può consentire l’ingresso di sostanze tossiche nel cervello. Alcuni anni fa Grundke Iqbal e collaboratori dell’Institute for Basic Research in Developmental Disabilities di Staten Island (New York) hanno dimostrato che le proteine associate ai neuro filamenti (le proteine tau) sono iperfosforilate nella sindrome di Alzheimer. Queste iperfosforilazioni, secondo una ipotesi formulata nel nostro laboratorio, potrebbero essere i siti di interazione tra l’alluminio e i neuroni destinati alla degenerazione. Possiamo quindi concludere che, nonostante non esista ancora una chiara evidenza eziopatogenetica sul ruolo dell’alluminio nella sindrome di Alzheimer, vi sono tuttavia forti indicazioni, provenienti da diversi laboratori, che sembrano accreditare un qualche coinvolgimento di questo metallo. Probabilmente siamo ancora ben lontani da una soluzione definitiva del problema. Appare quindi ragionevole assumere un atteggiamento prudente verso questo elemento, come è stato suggerito durante il convegno su “Alluminio e salute” tenutosi a Oslo nel 1988. In tale occasione vennero proposte alcune norme di comportamento quali: una giusta attenzione al contenuto di alluminio presente nelle soluzioni somministrate per via endovenosa in bambini nati prematuramente, in quanto la loro funzione renale non è ancora del tutto sviluppata; l’eliminazione di additivi, la cui concentrazione di alluminio risulta elevata, dalle soluzioni usate per la nutrizione parenterale; il mantenimento della concentrazione di alluminio intorno ai 10 micro grammi per litro nei fluidi di dialisi; il controllo periodico del contenuto del metallo nel plasma dei soggetti uremici che siano in trattamento farmacologico con composti contenenti alluminio utilizzati per ridurre l’iperfosfatemia derivante dal metabolismo proteico; il mantenimento del livello ematico di alluminio al di sotto di 80 micro grammi per litro. Sarebbe opportuno inoltre emanare norme che impongano di dichiarare la concentrazione di alluminio nei contenitori di tutti i cibi e medicinali e di limitare la presenza di alluminio nell’acqua potabile a valori non superiori ai 50 micro grammi per litro, per arrivare, in tempi ragionevoli, a 10 micro grammi per litro. Infine, non si dovrebbe superare con la dieta, in linea di massima, una quantità giornaliera di alluminio superiore a 30 milligrammi; in particolare, i soggetti uremici dovrebbero fare uso prudente di bevande contenenti citrato, quali il succo di agrumi, che hanno la capacità di aumentare la bio disponibilità del metallo.

La chimica dell’alluminio in soluzione acquosa

L’alluminio appartiene al gruppo IIIB del sistema periodico degli alimenti. Ha un isotopo stabile AI-27 e alcuni isotopi instabili quali AI-24, AI-25, AI-28, AI-29 e AI-30 con tempi di dimezzamento compresi tra 2,1 secondi e 6,6 minuti. Fa eccezione AI-26, con tempo di dimezzamento di 720000 anni, che viene attualmente impiegato per studi sul metabolismo. In base alla massa, dopo l’ossigeno con il 41,6 per cento e il silicio con il 28,5 per cento, l’alluminio con l’8,3 per cento è il terzo elemento più abbondante nella litosfera terrestre e nella superficie lunare e il metallo più abbondante (8,8 per cento) della biosfera. Data la sua alta reattività e la tendenza a formare composti stabili con altri elementi, non si trova libero in natura, ma legato con ossigeno e silicio a formare alluminosilicati polimorfi. E’ stata calcolata una concentrazione media di alluminio di 81,3 milligrammi per ogni grammo di crosta terrestre. La chimica dell’alluminio è piuttosto complessa in quanto il metallo può esistere in soluzione acquosa sotto forma di diverse specie chimiche. La sua solubilità dipende dal pH del mezzo e dalla carica negativa dei legami organici (citrato, proteine, acidi nucleici, fosfolipidi, eccetera) o inorganici (fluoruri, solfati, fosfati, silicati, eccetera) presenti nel mezzo stesso. Conseguentemente il legante può influenzare la solubilità e la bio disponibilità del metallo condizionandone l’azione tossica. Altre proprietà fisiche dell’alluminio lo predispongono ad alterare la struttura e quindi le funzioni dei sistemi biologici. Per esempio, l’unico stato di ossidazione (3) fa sì che l’alluminio non possa essere rimosso attraverso i processi ossido riduttivi comuni nei sistemi biologici, come avviene invece per il ferro che presenta gli stati di ossidazione 2 e 3. Il suo raggio ionico, fra i più piccoli esistenti in natura (0,051 nano metri), e l’elevata densità di carica, che è superiore a quella di altri elementi importanti nei sistemi biologici quali ferro e magnesio, lo rendono uno degli elementi più reattivi. Questo comporta effetti deleteri sui meccanismi di mobilità e di dinamica bio molecolare come è stato chiarito dagli studi di John D. Hem dello US Geological Survey e da Bruce R. Martin del Dipartimento di chimica dell’Università della Virginia. Nei sistemi biologici l’alluminio è associato preferenzialmente a gruppi donatori contenenti ossigeno come i carbossilati e i fosfati. All’interno della cellula si possono formare fosfati di alluminio, oppure è possibile che il metallo possa interagire con molecole biologicamente strategiche come l’adenosintrifosfato (ATP), il guanidintrifosfato (GTP), l’inositolfosfato (IP) e gli acidi nucleici.